Quotidiano sportivo a cura di Alberto Mangano e Giovanni Vigilante
In primo piano Le storie di Rosario

Quando giocavo a vico Zezza

di Rosario De Rosa

Da ragazzo ho tirato i miei primi calci (e non solo ai palloni) a Vico Zezza: non ho mai capito chi fosse sto Zezza, penso che era uno famoso e importante per stare tra via Dante e Corso Cairoli.
Su Wikipedia sono riuscito a rintracciare un minimo di dati su di lui, lo conosco soprattutto perché proprio a Vico Zezza ho i miei ricordi più belli, colorati di luce, di pomeriggi interminabili, di chiacchierate fino a sera tarda, di pane e pomodoro, di primi amori (le sorelle di Corrado avevano il loro perché…), di biciclette (la Graziella che sgommava quando frenava e quelle deluxe col sellone e la marcia, rigorosamente di seconda e terza mano), palloni (decine e decine di Super Santos, quando stavamo disperati rubavamo i Super Tele dalla baracchella di Rocchino all’angolo, finchè poi facemmo la colletta ed acquistammo il Tango: 5000 lire di sudore e sangue), qui ho vissuto battaglie epocali, ho stretto le mie prime amicizie importanti, quelle vere, che non ti scordi più.
Ora ha fatto un salto di qualità, da vico è diventata via, ma sempre di pochi metri quadri si tratta, secondo me neanche tu che leggi e sei di Foggia sai dove si trova.
Quando noi generazione x ci ritrovavamo, era uno stadio, un ring, un autodromo, uno spazio sconfinato, un orizzonte verso la libertà, il nostro tutto, il futuro che ci aspettava e che poi ha chiesto il conto; ora è sempre pieno di macchine, come tutti i cortili e gli slarghi che per noi erano stadi da trasferta contro questa o quell’altra banda, contro la squadra dell’orto o gli antipatici dei giardini!
Passava una macchina ogni tanto e noi ci fermavamo, col pallone al suo posto e a riprendere poi dal punto dove eravamo, pronti a nuove avventure.
Eravamo una ventina e più di ragazzi scatenati, ragazze poche, tutti incoscienti di quello che la vita ci avrebbe riservato, sognatori indomiti ed artigiani di un’adolescenza che non è tornata più, che non ci sarà più!
Mi ricordo la prima volta che li conobbi, Valerio, Gianni, Mario, Davide, Massimo, Ezio, Luigi: andai a comprare le mie prime figurine da Patierno, alla vetrina della girata notai un gruppo di ragazzi, vocianti e schiamazzanti con un coso arancione che chiamavamo pallone, d’istinto gettai un’occhiata e pensai che quello era un bel posto (è sempre un bel posto dove ci sono bambini e ragazzi che giocano a pallone); con la scusa delle figurine ci ritornai, la prima la seconda volta e così via.
Mi facevo vedere e vedevo, silenzioso stavo lì e aspettavo, col cuore in gola, che qualcuno mi guardasse, mi invitasse a giocare, a stare dentro, finchè magicamente quel coso rotolante arancione arrivò dalle parti mie: “Oh, vuoi passare il pallone o no?” e così iniziò la storia, fatta di portieri volanti, sfide, lacrime, sorrisi, biciclette, ginocchia sbucciate, corse, liti, segreti, appuntamenti, panini spezzati e distribuiti di morso in morso come neanche Gesù avrebbe potuto moltiplicare!
Eravamo ammassati tutti in pochi metri quadri, quando non scappavamo perché il pallone andava a infrangere i vetri della signora del primo piano o quando veniva quello della serranda del box che usavamo come porta (me lo ricordo, con la sua Ferrari rossa, lui cinquantenne ad inseguire noi adolescenti perché voleva essere risarcito dei danni alla sua serranda, diventata buchi buchi per le nostre cannonate): per un po’ diventava deserto, come nelle piazze del Far West nei film di Sergio Leone, il giorno dopo mandavamo Corrado in avanscoperta, lui era il figlio dei ricchi, nessuno gli avrebbe potuto fare niente, (povero Gianni era il figlio dei portieri del palazzo ed era l’unico a scontare, rimaneva in punizione per giorni interminabili, lo consolavamo dalla finestrella e gli raccontavamo le cronache delle nostre sfide senza di lui, finchè andavamo dai genitori a chiedere di farlo ritornare) per poi riprendere le nostre battaglie.
Quando pioveva andavamo in Via Dante, sotto i portici della Camera di Commercio: quanti lampioni rotti, esplodevano col botto al contatto col pallone, troppo fragili e bianchi per i nostri gusti e anche lì, viaaaaa!
Ora quei ragazzi siamo uomini, ognuno ha preso la sua strada, Matteo ha il forno, Mario fa l’infermiere, Gianni l’ho sposato, Enzo lavora alla Fiat, con Valerio ci siamo rivisti allo stadio e mi sono emozionato assai.
Abbiamo creato il gruppo su Whatsapp e lo spirito, nonostante i nostri anta, è rimasto quello di ragazzi.
Ci sono ritornato ieri, in silenzio sotto la pioggia, a ricordare, a piangere, ad emozionarmi, solo come mai ero stato lì: mi sono fermato una buona mezzora, a riprendere il mio posto sulle scalette, a rivedermi, a rivederci ragazzi, felici!
La serranda l’hanno finalmente cambiata, le catene dei paletti dissuasori di sosta sempre pesanti ed arrugginite, la signora che ci tagliava i palloni è morta da un po’, non ci sono più i gerani ai balconi e le auto hanno preso il sopravvento, neanche un metro dove fermarci e dire “Frichigna!”.

Redazione Solofoggia.it

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